Salvami dalle
Grandi Acque


 

Nella cultura biblica è molto evidente l'identificazione del pericolo con l'azione dei flutti ed il prorompente avanzamento delle onde. Tale identificazione appare a mio avviso molto strana dal momento che le vicende che hanno originato ed alimentato la cultura biblica ben difficilmente possono essere ricondotte ad esperienze di questo tipo.
In altre parole: da quali esperienze di vita i racconti delle vicende del popolo d'Israele hanno tratto le immagini di "fuga verso i monti", di "acque che mi giungono alla gola" e di "travolgenti torrenti impetuosi"?
Se l'ambito socioculturale dal quale proviene la cultura biblica è quello seminomade (alle origini) seguito, una volta entrati in Canaan, da uno stile di vita sedentario (dedito cioè all'allevamento e alla coltivazione agricola), quali possono essere le origini di un rapporto così drammatico con l'azione dirompente delle acque?
Considerando solamente il Libro dei Salmi (ma molte altre citazioni potrebbero essere tratte dalla predicazione profetica e dall'altra letteratura sapienziale) appare evidente come le domande poste poc'anzi siano tutt'altro che retoriche:

Salmo 18
5Mi circondavano flutti di morte
mi travolgevano torrenti impetuosi.

….
17(Il Signore) stese la mano dall'alto e mi prese
mi sollevò dalle grandi acque.

Salmo 32
6Per questo ti prega ogni fedele
nel tempo dell'angoscia;
quando irromperanno grandi acque
non lo potranno raggiungere.

Salmo 40
3(Il Signore) mi ha tratto dalla fossa della morte
dal fango della palude;
i miei piedi ha stabilito sulla roccia,
ha reso sicuri i miei passi.

Salmo 69
2Salvami o Dio: l'acqua mi giunge alla gola.
3Affondo nel fango e non ho sostegno;
sono caduto nelle acque profonde e l'onda mi travolge.

….
15Salvami dal fango, che io non affondi;
liberami dai miei nemici e dalle acque profonde.

16Non mi sommergano i flutti delle acque
e il vortice non mi travolga;
l'abisso non chiuda su di me la sua bocca.

Una prima risposta può essere data interpretando queste citazioni come richiami all'evento del Diluvio Universale, castigo senza scampo per gli empi e salvezza per Noè, prefigurazione dell'evento del Mare delle Canne, culmine dell'azione liberatrice di Dio nei confronti del suo popolo prigioniero in terra d'Egitto. Si tratterebbe, perciò, solamente di citazioni che non si fondano su esperienze dirette, ma sulle riflessioni teologiche (e poetiche) suggerite dalla rilettura del racconto della vicenda di Noè (al tempo della seconda opportunità concessa al genere umano, la seconda creazione) e di quella più recente della liberazione della schiavitù.
L'azione sterminatrice delle acque sarebbe dunque il "male" dal quale il popolo d'Israele (raffigurato dal padre-Noè) sarebbe stato scampato dal suo Dio, e tale azione sarebbe poi diventata (con Mosè) lo strumento concreto della liberazione dall'Egitto per il raggiungimento della Terra Promessa.
E mi pare che proprio partendo da queste riflessioni la successiva teologia cristiana ha inserito l'immagine dell'acqua quale elemento purificatrice (battesimo) e vitale (Cristo sorgente di vita), ma tali riflessioni esulano dall'ambito che sto affrontando.


A mio parere, però, vi possono essere anche altre spiegazioni.
Le immagini utilizzate, infatti, non danno l'impressione di una quasi asettica riflessione a tavolino, tutt'altro! Vi si respira l'angoscia di chi ha davvero sperimentato l'azione devastante e senza rimedio delle acque, il terrore di chi ha visto la sua esistenza veramente in pericolo, senza alcuna possibilità di scampare all'avanzata dei flutti ed alla loro morsa letale.
Da questa considerazione mi è venuto il sospetto che l'autore potesse aver avuto diretta esperienza di quelle situazioni, che davvero avesse visto con i suoi occhi l'azione devastante dei flutti e che avrebbe poi trasformato questa sua esperienza in splendide immagini allegoriche.
Non mi risulta, però, che la regione palestinese possa essere segnalata come possibile scenario di inondazioni particolarmente violente; il Giordano, pur con tutto il rispetto, non penso possa essere soggetto a travolgenti piene e a devastanti esondazioni, quasi si trattasse (limitando la citazione ai fiumi della zona medio-orientale) del Nilo, del Tigri o dell'Eufrate.
A meno che…

Prima ipotesi: Thera.
Il Mar Egeo è stato lo scenario di un evento catastrofico, forse una delle più grandi prove di forza che madre natura ha fatto sperimentare, sul nostro pianeta, alla civiltà umana. Mi riferisco alla esplosione vulcanica dell'isola di Thera (Santorini) che nel 1626 a.C. (tra le tante proposte è questa forse la data più probabile) disintegrò metà isola ed innescò un'onda di tsunami che non solo irruppe sulle isole più vicine (l'arcipelago delle Cicladi), ma fece sentire la sua pesante devastazione anche sull'isola di Creta, proseguendo poi la sua corsa fino a raggiungere anche le coste libiche e palestinesi. Ha certamente ragione chi afferma che non esistono documenti scritti che narrano l'evento, ma alcune circostanze storiche ci possono dare qualche spiegazione. Anzitutto non possiamo aspettarci alcun racconto dagli abitanti di Thera, costretti dall'incalzare degli eventi ad abbandonare la loro isola per trovare un (poco) sicuro rifugio nelle isole vicine. E neppure l'altra civiltà allora presente nell'Egeo, oltre a quella Cicladica, può essere d'aiuto: la cultura minoica, infatti, deve proprio all'evento di Thera la sua fine improvvisa. D'altra parte la civiltà greca era ancora troppo primitiva; il periodo di cui stiamo parlando è classificato come primo periodo miceneo, e si colloca al termine delle migrazioni dal nord dei popoli indoeuropei (Ioni ed Achei). La speranza di avere riscontri oggettivi naufraga anche quando si cerca di consultare la produzione letteraria egiziana: era infatti l'epoca dell'invasione degli Hyksos, un momento buio di ritorno alla barbarie per la civiltà del Nilo che vantava già una consolidata cultura.
Non c'è che dire, la mancanza di possibili riferimenti è desolante, ma proprio questo silenzio collettivo su un evento così straordinario qual è stata l'esplosione di Thera è esso stesso una prova schiacciante: come infatti non pensare che la mancanza assoluta di racconti sull'accaduto non sia essa stessa il muto racconto di uno sconvolgimento epocale, di un repentino e radicale ritorno a civiltà meno evolute, ancora incapaci di raccontarsi e di raccontare (anche con figure allegoriche) gli eventi che le avevano portate a conquistare la scena?
In verità c'è stato chi ha interpretato le vicende della fuga/cacciata dall'Egitto del popolo d'Israele raccontate nel libro dell'Esodo (le piaghe, i prodigi, la nube e la colonna di fuoco e la stessa divisione del Mar delle Canne) come dirette conseguenze dell'evento-Thera, ma sinceramente non me la sento di condividere questa pur intrigante associazione. In Esodo 1,11 si parla del popolo d'Israele in schiavitù impegnato nella costruzione delle città deposito di Pitom e Ramses, opere che si collocano all'epoca del regno di Ramses II, perciò è durante il regno di questo faraone (durato dal 1290 al 1224 a.C.)che si devono collocare gli eventi della fuga dall'Egitto del gruppo di Mosè. Una breve divagazione: certamente l'idea dell'esodo in massa del popolo d'Israele, tanto cara alla finzione cinematografica, non corrisponde a quanto è avvenuto ed è piuttosto ipotizzabile una serie di vicende che hanno riguardato più gruppi separati, ciascuno con le sue traversie e con il suo condottiero, riunitisi in seguito in un unico popolo prima dell'ingresso in Canaan. Si spiegherebbe in tal modo anche il dualismo tra fuga e cacciata che traspare dai racconti veterotestamentari.
Chiudiamo subito questa parentesi e ritorniamo al nocciolo del problema: se accettiamo quanto è scritto in Esodo 1,11 possiamo concludere che quasi trecento anni separano l'evento di Thera dalle vicende di Mosè, troppi per abbozzare uno stretto legame, ma sufficientemente prossimi agli eventi dell'esodo tanto che alcuni racconti da essi ispirati avrebbero potuto essere in seguito confusi e addirittura identificati con quelli dell'epopea di Mosè e comunque diventare parte integrante del patrimonio culturale del popolo ebraico. E da questo patrimonio riemergere con quelle immagini così vive e drammatiche presentate all'inizio della nostra analisi.

Seconda ipotesi: cultura ebraica = cultura sumerica.
E' la diretta conseguenza di quanto ho sviluppato nella ricostruzione degli eventi che hanno portato al sorgere dei racconti e delle tradizioni del Diluvio. Il retroterra culturale (e cultuale) del popolo ebraico sarebbe da identificare con la civiltà sumera: le vicende di Abramo invitato da Jahwè ad abbandonare la terra natale di Ur non sarebbero dunque un escamotage letterario per celebrare le nobili origini di Israele, ma rifletterebbero il reale punto di unione tra le due culture. La cultura sumera era pervasa dall'acqua (non a caso il creatore dell'umanità è proprio Enki, il dio dell'acqua che disseta e crea) intesa come sorgente di vita, ma anche come causa di distruzione e di morte. E lo stesso clima respiriamo nei racconti biblici, testimonianza di qualcosa di molto più profondo di una semplice vicinanza dei popoli o dell'effetto di una dominazione.
Non è mia l'idea così scioccante dell'identificazione della cultura ebraica come evoluzione e diretta emanazione della cultura sumera (non mi reputo un esperto di sumerologia e neppure di studi biblici), ma l'ho conosciuta grazie a David Rohl ed al suo "La Genesi aveva ragione" (Ed. Piemme, 2000). Doverosa, dunque, una limitata citazione rimandando (ed invitando caldamente) il mio lettore all'approfondimento sul testo originale.

I figli di Shem
Vorrei ora esporvi un'interessante teoria avanzata da Samuel Noah Kramer - che, è opportuno ricordarlo, è considerato il più importante sumerologo del XX secolo. Nell'ultima parte del suo "The Sumerians", un classico in fatto di sumerologia, Kramer affronta la spinosa questione delle relazioni tra i patriarchi biblici e i sumeri. Inizia paragonando ciò che sappiamo della civiltà sumera con la tradizione israelita così come si appare dalla Bibbia.
[…]
E' evidente che tra sumeri e israeliti ci furono legami culturali che Kramer si propone di analizzare, ma questo lo porta a porsi la domanda fondamentale:

"Se i sumeri sono stati un popolo che nel Vicino Oriente antico ha raggiunto risultati tanto importanti in campo letterario e culturale da lasciare un'impronta indelebile sulle opere degli uomini di lettere ebrei, perché mai la Bibbia quasi non li nomina?"

Si tratta di un particolare che i lettori della Bibbia notano raramente. Nel Vecchio Testamento sono citate quasi tutte le altre civiltà importanti del Vicino Oriente antico - egizi, cananei, amorrei, urriti, ittiti, assiri, babilonesi - ci sono tutti. Perché i Sumeri non ci sono?

"Nel Libro della Genesi, nei capitoli 10 e 11, per esempio, troviamo elenchi di un certo numero di eponimi, di territori e di città. Ma, fatta eccezione per il termine Shinar, piuttosto oscuro, e che gli studiosi di solito identificano con Sumer… sembra che in tutta la Bibbia i sumeri non vengano citati affatto, il che mal si concilia con la loro presunta preminenza e influenza."

Subito dopo scopriamo che Kramer ripropone una teoria pubblicata per la prima volta nel 1941 dal suo maestro, un altro grande studioso del mondo mesopotamico - Arno Poebel (1881-1958).
[…]
Kramer introduce una puntualizzazione di tipo grammaticale destinata a risolvere il problema dell'assenza dei sumeri nel racconto biblico […].
In parole semplici, i sumeri avevano un certo numero di consonanti che, quando si trovavano alla fine di una parola venivano lasciate cadere, in pratica non venivano pronunciate.
Per esempio, la parola che indica "dio" - dingir - veniva pronunciata "dingi". La consonante "r", sebbene scritta, non veniva pronunciata. Dopo aver indicato un paio di esempi, Kramer sferra quello che, da un punto di vista linguistico e intellettuale, è un vero colpo di grazia.

"Torniamo dunque al nostro problema e alla ricerca della parola Sumer, o meglio Shumer, per usare la forma che compare nei documenti in caratteri cuneiformi. Poebel fu colpito dalla somiglianza tra Shumer e Shem, il nome del figlio maggiore di Noè, da cui derivano eponimi come Ashur, Elam, Eram e, soprattutto, Eber, l'eponimo degli ebrei."

Che cosa vuol dire? Significa forse che il nome biblico Shem potrebbe essere l'eponimo anche della terra di Sumer? Sì; per quanto possa sembrare stupefacente, è proprio quello che intende dire Kramer, il sumerologo per eccellenza, che continua poi con due importanti precisazioni:

- la vocale ebraica "e" equivale spesso alla vocale cuneiforme "u", come nel caso della parola ebraica shem che indica il "nome" e che corrisponde all'accadico shum. Dunque il sumerico "Shumer" diventa l'ebraico "Shemer";
- la consonante "r", che troviamo alla fine della parola "Shumer", è una consonante che non veniva pronunciata.

Pertanto la pronuncia della parola "Shumer" nella lingua ebraica sarebbe stata "Shem"!
La conclusione è tanto inevitabile quanto rivelatrice.

"Se l'ipotesi di Poebel risulta corretta, e Shem corrisponde a Shumer/Sumer, dobbiamo concludere che gli autori ebrei della Bibbia, o quanto meno alcuni di loro, pensavano che i sumeri fossero gli antenati del popolo ebraico."

Come fa notare Kramer, nessuno prese sul serio l'originale ipotesi di Poebel e, è triste dirlo, anche il tentativo di Kramer di riproporla non ebbe successo. Ma si tratta davvero di un'ipotesi tanto assurda? Quei due illustri studiosi erano proprio completamente fuori strada? Quanto ho esposto fino ad ora indica che non erano affatto lontani dalla verità.

(da: David Rohl - La Genesi aveva ragione - Ed. Piemme; 2000 - pagg. 130-133)

 


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